Il giudice può sempre dare al fatto una diversa qualificazione, ma non può modificare il fatto oggetto dell'imputazione

Il giudice può sempre dare al fatto una diversa qualificazione, ma non può modificare il fatto oggetto dell'imputazione

  • Francesco Maria Danzi

Con la recente pronuncia del 7 settembre 2023, la Corte di Cassazione ha segnato i confini del potere del giudice di qualificazione dei fatti descritti in imputazione.

La decisione trae origine da un procedimento per estorsione, consumata e tentata, aggravata dall’approfittamento delle condizioni di minorata difesa psichica della vittima. La difesa dell’imputato, in udienza preliminare, aveva avanzato richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, previa derubricazione della contestazione nel reato di violenza privata di cui all’art. 610 c.p.

Il G.U.P., acquisito il programma di trattamento e ritenuto che il fatto potesse integrare gli estremi della violenza privata, aveva sospeso il procedimento per dieci mesi.

Avverso l’ordinanza di sospensione, ricorreva per Cassazione il pubblico ministero, lamentando la violazione dell’art. 168-bis c.p., attesa la indebita derubricazione del reato di estorsione in quello di violenza privata, dal momento che la condotta materiale contestata evidenziava con chiarezza la finalità patrimoniale, talvolta anche guadagnata, che reggeva l’agire violento.

Con il secondo motivo, il ricorrente deduceva il vizio di motivazione dell’ordinanza, poiché all’interno di essa, a più riprese, si metteva in evidenza il fine patrimoniale dell’agire dell’imputato. Inoltre, pochi mesi prima, in sede cautelare, lo stesso giudice aveva motivato con riferimento alla finalità patrimoniale che aveva ispirato la condotta dell’agente.

I giudici di legittimità, accogliendo il ricorso, procedevano a una ricognizione della disciplina della modifica dell’imputazione di cui all’art. 423, comma 1 c.p.p. In particolare, la norma citata prende in considerazione – oltre i casi di emersione di un reato connesso o di una circostanza aggravante – l’ipotesi in cui, nel corso dell’udienza preliminare, il fatto risulti diverso da quello descritto nell’imputazione.
Per fatto deve intendersi “un dato empirico, fenomenico, un dato della realtà, un accadimento, un episodio della vita umana, cioè la fattispecie concreta e non la fattispecie astratta1

Il già menzionato art. 423 c.p.p., comma 1, nel caso in cui il fatto risulti diverso da quello originariamente contestato, permette al pubblico ministero di modificare l’imputazione senza il consenso dell’imputato. La stessa norma, al comma 2, invece, prevede, qualora risulti un fatto nuovo, non enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio e per il quale si debba procedere d’ufficio, che il giudice possa consentirne la contestazione su richiesta del pubblico ministero e in presenza del consenso dell’imputato.

Occorre, a questo punto, chiarire la differenza tra fatto diverso e fatto nuovo. Il fatto è diverso quando, pur presentando connotati materiali anche difformi da quelli descritti nel capo d’imputazione, rimane “invariato nei suoi elementi costitutivi (condotta, oggetto),inclusi i riferimenti spazio-temporali, sicché, se questi sono alterati, si tratta di un fatto nuovo”2

Chiarito questo aspetto, la Corte rilevava come il giudice di merito avesse omesso di qualificare la modifica dell’imputazione in termini di fatto nuovo o diverso, ma si fosse limitato ad affermare di aver dato a quegli stessi fatti una qualificazione giuridica diversa. Questo potere, secondo la Suprema Corte, rientra nell’ambito delle attribuzioni del giudice, in virtù del principio dell’iura novit curia. Al pubblico ministero spetta, invece, l’esatta contestazione del fatto “condotta-evento”, rispetto alla quale è precluso ogni intervento del giudice.

Nel caso di specie, secondo i giudici di legittimità, il G.U.P. non si era limitato a dare al fatto una diversa qualificazione giuridica, ma aveva mutato il fatto “condotta-evento” come descritto nell’imputazione, e, al fine di consentire l’accesso al rito alternativo, aveva escluso sia il fine di profitto che aveva mosso l’imputato, sia il profitto stesso, talvolta effettivamente conseguito.

Per queste ragioni, la Corte annullava senza rinvio l’ordinanza impugnata.

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1 Cass. pen., sez. Un., sent. 19 giugno 1996, n. 16
2 Cass. pen., sez. IV, sent. 10 febbraio 1998, n. 5405

 

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